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Stagione 1960-61, quando nella Juventus giocava Omar Sívori

Quell’anno, il giocatore nato in Argentina da mamma abruzzese, soprannominato El Cabezón, portò a casa Scudetto e Pallone d’oro.

La blogger Aurora Sansotari: perché non commentare la politica, usando metafore calcistiche?

Dopo la debacle bianconera, esacerbata dalla vittoria in Champions League delle milanesi, c’è chi parla ancora di lui. Io mi fermo. I miei occhi vogliono sentire più delle mie orecchie. Così, aspetto. Così, ascolto. “Lui è stato il più grande palleggiatore di tutti i tempi. Allora, inizia una lunga lista di commenti che tocca a me verificare. Loro (a Trieste si direbbe lori) sono in tre. Io preferisco rimanere da sola, sorseggiando il mio solito (e allettante) aperitivo analcolico.

“Ma ti ricordi? Giocava di sinistro”, commentò il più maturo dei tre, sostenuto da una piccola porzione del bancone del bar sul quale si era adagiato e che appena lo teneva in piedi. “E giocava senza parastinchi!”. A quel punto, gli indizi erano 2. Ma, in quali sport si usano i parastinchi? Sicuramente non in quelli in cui non si preveda un contatto fisico, sia quest’ultimo forte o meno. 

Però, chi gioca di sinistro? Mi chiedo, soffermandomi anche sul secondo particolare. I parastinchi….sì, chi usa i parastinchi e gioca di sinistro? Certo, ci sono arrivata: un calciatore! Sembravo alquanto euforica, come presumo lo fosse chi aveva la fortuna di vincere al Vecchio Totip. Però i tre, intenti a sorseggiare un dolce friulano, dal canto loro continuavano a parlare  del misterioso calciatore.

Lo chiamavano El Cabezón

Altro giro di valzer, altro indizio. “Che capellone che era! Ad averli avuti io quei suoi capelli!”, commentò un altro dei tre completamente calvo e che tratteneva la mano sulla fronte per nascondere quell’attimo di imbarazzo che probabilmente riteneva indecente. Ormai, l’identikit era completo e io avevo fatto tredici! Si trattava di Enrique Omar Sívori, chiamato El Cabezón per i folti (folti) capelli neri. Di lui, basti sapere che è nato a San Nicolas de Los Arroyos il 2 ottobre 1935, giocando, però, sia nella Nazionale Argentina sia nella Nazionale Italiana. Infatti, figlio di mamma abruzzese, acquisì la nazionalità italiana per naturalizzazione.

Omar Sívori

I CLUB IN CUI HA MILITATO

Omar Sívori ha giocato nel River Plate, nella Juventus e nel Napoli, detenendo, insieme a Silvio Piola, il record per il maggior numero di gol realizzati in un singolo match della Serie A. La data che, in seguito, fu riportata negli annali del calcio è il 10 giugno 1961, quando l’uomo con la chioma più bella del campionato arrivò a segnare ben 6 reti nella partita JuventusInter che si concluse con un indimenticabile 9-1 per i padroni di casa. La stagione calcistica da segnare sul calendario era, appunto, quella del 1960-61

Quell’anno, in realtà, risultò foriero di grandi soddisfazioni per il calciatore che, oltre allo Scudetto, portò a casa il riconoscimento più importante, cioè il Pallone d’oro, occupando la posizione numero 36 nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo. Quello che divenne, a suon di gol, il mitico Omar Sívori morì nel paese natio il 17 febbraio del 2005. 

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Perché c’è vita dopo la morte: il senso del racconto ‘Senza la Ferrari rossa’ di Daiva Lapen

L’autrice si chiama Daiva Lapen e, nel suo breve racconto, fa qualcosa di utile in questo momento: dà un senso alla tristezza. Il racconto s’intitola ‘Senza la Ferrari rossa’. 

Nulla di pretenzioso: infatti, solo160 pagine compendiano il primo sforzo letterario di questa giornalista lituana che, si apprende dalla biografia, attualmente dovrebbe risiedere a Cagliari. La storia non ha uno sfondo bene definito e, anche di New York o Milano in cui si svolgono gli accadimenti più importanti, non si evidenziano quei particolari che ne definiscono lo straordinario ambito multiculturale. La trama è molto semplice: narra la storia di Alex, un ragazzo apparentemente benestante, di origini statunitensi, che per un’insolita scommessa si ritrova a lavorare a Milano, in una piccola redazione giornalista e privo di quei mezzi e privilegi a cui è abituato dal suo status di appartenenza.

Il valore della scommessa

Il patto è siglato tra due amici storici: Alex e Daniel. Riuscire a vivere per un mese, in un luogo lontano, rinunciando agli agi di una famiglia tipicamente ricca e, per la prima volta, accingendosi a svolgere un’attività lavorativa. Sarà la scommessa della vita e, come premio di ritorno, alla vittoria corrisponderà l’ebbrezza di possederla: di avere tra le mani quella mirabile Ferrari Rossa.

Il senso della perdita

Si dice che la vita abbia due poli: la nascita e la morte, mentre nel mezzo, si posiziona la vita. Il racconto, in realtà, è pervaso da questo senso di finitudine, e cerca di darle un significato. Stefano, il bellissimo omosessuale dal sorriso granitico, perde il compagno per un tumore allo stomaco. Daniel, l’amico di sempre del protagonista, è già segnato da un grave lutto, la perdita della madre. Lo stesso Alex, il giovane rampollo impoverito, conosce la perdita della futura sposa a causa di un banale incidente d’auto e quella del padre che scopre essere adottivo solo dopo la morte. Ognuno di loro, però, trova il riscatto, in un modo o nell’altro. Anche se, in tutto il racconto, domina il leitmotiv per cui a certi eventi, nonostante la vita ci fornisca le occasioni per andare avanti, non si è mai pronti.

L’amore come sentimento universale

Così, Alex scopre l’amore, quello vero. Prima in Italia, per la sua Gabriella dai grandi occhi verdi. Poi, devastato dalla sua morte e da quella del padre, riscopre le stesse sensazioni, come pugni allo stomaco, toccando le labbra del suo amico Daniel con le sue, leggermente bagnate di saliva. E se la felicità corrisponde al possesso di una Ferrari, allora vale la pena ricordare una frase del suo mitico fondatore, Enzo appunto: “Qual è la Ferrari migliore? Sicuramente la prossima”. 

“Qual è la Ferrari migliore? La prossima”

Enzo Ferrari

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Ossigeno Illegale: nel libro, svelati i retroscena dell’ascesa criminale del clan di ‘ndrangheta Grande Aracri di Cutro

A parlarne, il giornalista Antonio Nicaso: “Il boss Nicolino, ignaro di essere intercettato, parla di legami con Londra”.

Io non mi sento nessuno…però, dovunque vado…e dove voglio…ringarzio a Dio… non mi aprono solamente la porta. Nemmeno esco che aprono un portone intero… e mi fanno entrare a fare quello che voglio”, dichiarazione di Pietro Nardo, uomo di ‘ndrangheta, riportata nel best seller ‘Ossigeno Illegale’ a pag.6 del Paragrafo VIII, «Tutto si aggiusta».

Il clan calabrese Grande Aracri di Cutro è sotto la lente d’ingrandimento ormai da giorni per i presunti rapporti intrattenuti con Domenico Tallini, cioè l’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria. Il giornalista Antonio Nicaso, coautore del libro ‘Ossigeno Illegale’ insieme a Nicola Gratteri, ora tra i libri più venduti in libreria, in merito alla figura del boss Nicolino Grande Aracri, reggente dell’omonimo clan di ‘ndrangheta, ha affermato: “Ignaro di essere intercettato, ha ammesso di avere allungato le mani su alcune società quotate alla borsa di Londra. Non so quanto ci sia di vero in quello che dice oppure se si tratti di semplice millanteria”. Certo è che il clan calabrese ha origini a Cutro, in provincia di Crotone, ma è capace di operare in modo strategico in tutta Italia. “Si pensi, ad esempio, all’Emilia Romagna e al caso del Consiglio comunale del Comune di Brescello, in provincia di Reggio Emilia, sciolto per mafia dal Cdm”, ha spiegato l’autore della famosa serie tv Bad Blood durante un’intervista sul suo ultimo libro.

“La City of London è uno stato dentro lo stato. Infatti, ha una legislazione diversa rispetto al resto della Gran Bretagna. Storicamente, è considerato come un possedimento privato della Corona inglese e possiede quel medesimo status giuridico”, ha continuato il giornalista. “Ma ci sono tantissime altre realtà che rientrano nel novero della cosiddetta finanza opaca, cioè dove è difficile distinguere tra il lecito e l’illecito. Molti faccendieri vi riciclano denaro, sfuggendo al fisco e al controllo degli organismi investigativi”. 

Antonio Nicaso, durante la sua intervista, ha commentato le dichiarazioni assai esplicite di un uomo di ‘ndrangheta contenute anch’esse, come le affermazioni del boss Nicolino, nel libro ‘Ossigeno Illegale’. Si tratta di Pietro Nardo che dimostra di conoscere molto bene il contesto criminale della provincia crotonese. “Ringarzio Dio, perché dovunque vado, non mi aprono soltanto una porta, ma aprono un portone intero. Mi fanno entrare a quello che voglio”, ha ammesso l’uomo durante un’intercettazione. “Le parole di Nardo mi fanno ricordare il soprannome di un boss che viveva in un paese non molto lontano dal luogo dove sono cresciuto, nella Locride. Questo boss veniva chiamato maniglia, per la capacità della ‘ndrangheta di aprire porte”, ha commentato l’autore. “Le mafie, infatti, hanno l’abilità di aprirsi dei varchi. Però, quando pensiamo al mafioso moderno, dobbiamo fare riferimento ad una persona che ha un’agenda fitta di nomi, anche se il telefono viene usato con parsimonia. Ma il significato non cambia. La ‘ndrangheta ha la capacità di bussare alle porte giuste e trovare le risposte che cerca”, ha continuato Nicaso.

In crotonese, il termine ‘ciciofra’ significa droga. Lo spaccio e l’approvvigionamento di stupefacenti non si è arrestato nemmeno durante il lockdown, ma sono cambiate le tradizionali rotte di trasporto. Come approdo, sono stati utilizzati i porti spagnoli, belgi e olandesi a discapito di quelli italiani. “La droga è arrivata in Italia su mezzi rotabili che vengono utilizzati per il trasporto di beni primari, cioè prodotti alimentari, ortofrutticoli e sanitari”, ha spiegato l’autore via Skype dal Canada. “Ora, però, sembra che le cose stiano cambiando. L’altro giorno, ad esempio, è stato sequestrato un carico di quasi 1000 chili di cocaina presso il porto di Gioia Tauro”. Non solo. “Alcune famiglie hanno accumulato grossi quantitativi di droga, perché già sapevano che durante il lockdown sarebbe stato impossibile rifornirsi di stupefacenti. È questo il caso del boss Rocco Molè, sorpreso ad interrare, vicino alla sua abitazione, circa  537 chili di cocaina”, ha raccontato Antonio Nicaso.

Ma la storia del clan crotonese, così come raccontata nel nuovo best seller sulla ‘ndrangheta, sembra in netta ascesa. Infatti, la famiglia Grande Aracri sarebbe riuscita a valicare le frontiere, instaurando rapporti con ex esponenti del regime comunista, conosciuti anche come ‘colletti bianchi romeni’. “Quando penso alle mafie, mi vengono in mente quei fenomeni carsici che riguardano le Alpi, per cui la mafia scompare e riappare. In realtà, si va alla ricerca di quei paesi in cui è più facile delinquere e riciclare denaro, perché non si avverte il pericolo delle mafie. Si pensa, cioè, che la propensione a delinquere sia un fenomeno tipicamente italiano”, ha spiegato Nicaso. “Invece, nella lotta alla criminalità internazionale, sarebbe utile capire che le mafie si sono globalizzate, mentre l’azione di contrasto ancora no”.

Inoltre, durante il periodo Covid, si è assistito al traffico illegale di dispositivi medici e di protezione personale. Il 28 marzo 2020, sono stati intercettati dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli di Gioia Tauro, in collaborazione con la Guardia di Finanza del comando provinciale di Reggio Calabria, due carichi di materiale sanitario, contenenti 364.200 paia di guanti sterili  e 9720 dispositivi endotracheali provenienti dalla Cina e destinati all’incubazione di pazienti con difficoltà respiratorie. “Come avverte L’Interpol e in base alle ipotesi investigative così come riferite dal Capo della polizia, Franco Gabrielli, c’è il rischio che la ‘ndrangheta riesca ad infiltrarsi nel mercato dei vaccini”, ha concluso Antonio Nicaso. “Solo sconfiggendo la paura e creando speranze di vita concrete, sarà possibile contrastare il fenomeno mafioso nel nostro paese”. 

Qua(ndo) se voterà

Detto alla romana fa pensare. È possibile che si torni a votare prima della fine della legislatura?

Aurora Sansotari davanti al New York Times.

Qualcosa in pentola brucia già da un po’, cioè dal momento in cui si è esaurita la tornata elettorale delle Europee.

La debacle dei populisti

Non sono certo passate inosservate le espressioni di Salvini e Meloni che, all’esito del voto, hanno portato avanti una pantomima poco divertente. “Nessuno cantasse vittoria. Se prendessimo Roma, infatti, a vincere saremmo noi”, ha sentenziato il capo carismatico (biondo) di Fratelli d’Italia, quando poche ore prima dell’apertura delle urne lo stesso partito è stato coinvolto in un’inchiesta da tanti definita ‘nera’, per il legame di alcuni esponenti del partito con ambienti di estrema destra.

Il M5S non regge il periodo

Per i pentastellati non è proprio un momento felice. L’unico che ne esce fuori bene è Conte, arrivato però alla leadership del Movimento sin troppo tardi, quando gli altri, cioè loro, i 5 stelle della prima ora, avevano già dissipato l’inverosimile, arrivando, nelle sedute odierne, a rimodulare un provvedimento che in passato avevano fortemente voluto.

Così, c’è poco da rianimare. A breve, avremo un Rdc diverso, e forse, diciamocelo pure, l’idea non è poi tanto male.

Quando le opinioni hanno le gambe per camminare. Aurora Sansotari.

I partiti di centro gongolano

Gli unici che possono gongolare (e lo fanno) sono i partiti di centro. Certo, il ritorno di Letta non è un bel vedere per la generazione dei neo-quarantenni, ma loro (noi) non siamo gli unici. A qualcuno, infatti, questa volta un po’ nostalgico dell’altra metà della mela, l’evento ben poco epocale non dispiacerà sicuramente. Allora? Contenti loro…contenti loro!

Ma è davvero tutto così incerto? È (davvero) vero che tutti, proprio tutti, pendono dalle labbra di Draghi oppure si gioca sottobanco per anticipare le elezioni alla primavera del 2022? A questo punto, la battaglia alla conquista del Quirinale, potrebbe essere decisiva.

Stagione 1987-1988, come il “Vate” portò alla Scavolini-Pesaro il suo primo scudetto

La storia sembrava scritta: una squadra forte sulla carta, ma destinata a perdere. Però, l’intuizione geniale di Valerio Bianchini ribaltò le sorti del campionato di Serie A.

Aurora Sansotari, blogger quasi mai in vacanza.

Amore per il calcio? Semmai, amore per lo sport (questa volta tutto). Così, gira che ti rigira (è questo un modo di dire volgare, dal termine latino vulgus, cioè folla), tornano in mente quegli episodi che ci insegnano come eravamo e probabilmente come siamo oggi. Era il 1987, quando “L’Hangar”, cioè il Palasport di Viale dei Partigiani di Pesaro, ogni domenica veniva letteralmente preso d’assalto dai numerosi tifosi che, in quegli intramontabili anni ‘80,  ne avevano fatto un santuario del basket a livello internazionale. In quel caso, la squadra da seguire era la storica Victoria Libertas Pallacanestro, fondata ufficialmente il 1°luglio 1946, ma che già dal 1974 aveva il nome di Scavolini-Pesaro per suggellare un nuovo rapporto di sponsorizzazione con la ‘famiglia più amata dagli italiani’, tanto che la stessa, Scavolini appunto, nel 1985 ne aveva assunto la presidenza.

 C’era la volontà di credere in un progetto ambizioso chiamato scudetto ma, nonostante la squadra fosse forte (fortissima) sulla carta, proprio quel traguardo sembrava sfuggire, mentre la sfilza degli insuccessi sembrava allungarsi, a partire dal 1982. In quell’occasione, la VL (abbreviazione di Victoria Libertas) perse la sua sfida-scudetto contro l’Olimpia Milano, riuscendo a ricucire il rapporto con se stessa e con il suo pubblico solo in un secondo momento. Nel 1983, infatti, vinse la Coppa delle Coppe contro il Villeurbanne, mentre il 1985 è l’anno dell’affermazione casalinga: la Scavolini-Pesaro vinse contro il Varese, portando a casa la Coppa Italia. Però, alle due vittorie seguirono, probabilmente per opera di una sorte beffarda, sconfitte assai dure da digerire: sempre in quel turbolento1985, la Scavolini-Pesaro perse la sua seconda finale-scudetto contro Milano, ma le delusioni più cocenti si consumarono nella regina delle competizioni europee. La VL riuscì a perdere ben due finali di Coppa delle Coppe: una nel 1986 contro il Barcellona e l’altra, come un fulmine a ciel sereno, nel 1987 contro la  solita Villeurbanne

Però, proprio il 1987 sarà l’anno della svolta: sulla panchina, infatti, siederà Valerio Bianchini, soprannominato “Il Vate”. L’allenatore di grande esperienza vantava al suo attivo due scudetti, vinti rispettivamente contro la Roma e il Cantù, mentre la sua squadra era composta da un gruppo ‘storico’: cioè, Walter Magnifico, Ario Costa, Andrea Gracis, Renzo Vecchiato, Domenico Zampolini e Giuseppe Natali. Tra gli altri, facevano parte della squadra anche Aza Petrovic, fratello del più famoso Drazen, arrivato dal Cibona Zagabria, e Greg Ballard, realizzatore preso tra i Warriors dell’NBA ossia dai Golden State.

Proprio per gli eventi che accaddero in quegli anni, il coach Bianchini è ancora oggi nel cuore dei tifosi (risale al 1975 la nascita del gruppo ultras della squadra, l’Inferno Biancorosso), così come accade la stessa cosa per l’allora giovane Sergio Scariolo, quest’ultimo destinato, per le sue capacità, ad entrare nell’élite del basket a livello internazionale. Anche in quella stagione, la partenza fu tutt’altro che in discesa. Bianchini, dal canto suo, aveva carta bianca, ma non ci volle tanto per capire che, in quella squadra così ‘italiana’, mancasse qualcosa (forse maggiore atletismo, probabilmente più leadership). Così, il “Vate” giocò la sua contromossa: prima della quarta di ritorno, si finse malato e volò verso gli Stati Uniti. Qual era il suo intento? Vedere Darwin Cook giocare dal vivo. Ciò avvenne a Lacrosse, durante una partita in cui l’ex-giocatore di Washington e New Jersey venne preso a pallonate da Sugar Ray Richardson. Nel frattempo, giunsero notizie funeste da Livorno. Quella sera, Bianchini andò a cena con un Cook sconfortato, ma il giocatore dovette capire il suo stato d’animo e gli sussurrò: “Mister, io sono il tuo uomo”.

Cosa successe dopo

Dopo Cook, in squadra entrò Darren Daye

Alla decima di ritorno, Cook sbarcò a Pesaro. Dopo circa due settimane, arrivò in squadra un certo Darren Daye, allora chiamato il “Cerbiatto”, senz’altro per la sua agilità nel raggiungere il canestro. Il debutto della coppia, però, segnò un’ulteriore sconfitta, quella contro la Virtus Bologna. Ma Pesaro fece presto a rialzarsi, portando a casa il risultato contro Caserta e Cantù e conquistando a suon di morsi il quinto posto in regular-season. Tuttavia, ciò non valse la qualificazione diretta ai quarti di finale, riservata suo tempo alle prime 4, però si ottenne il passaggio ai playoff. L’assetto della squadra era, in realtà, profondamente diverso, non cogliendo all’inizio il bene placet di molti. Alcune partite, anzi, finirono all’urlo di: “Coach, stai cambiando più neri di una pornostar”. Le circostanze, però, seppero stupire e il ciclo della coppia (qualcuno direbbe dei cioccolatini) proseguì a vele spiegate. 

Come si arrivò allo scudetto

La storia professionale di Darren Daye sembrava essere giunta ad un bivio: per un’intervista in cui si rivelò essere particolarmente ‘loquace’, venne messo in disparte nei Boston Celtics di Larry Bird e Kevin McHale, uscito ancora prima da UCLA e dagli Washington Bullets. Così, giungendo a Pesaro, il giocatore dimostrò, da subito, carattere da vendere. Di lì a poco, grazie anche alle sue qualità tecniche che lo rendevano imprendibile in 1vs1, formerà, insieme a Darwin Cook (due americani, appunto) una delle coppie di basket più forti di sempre, esportando (per quanto ci riguarda, importando) una costruzione di gioco che, come si usa dire in gergo, era “verticale” ed innovativa rispetto agli schemi proposti fino a quel momento. 

La cavalcata finale

Il trionfo

Il tabellone segnava i seguenti risultati: fuori Reggio Emilia in 3 partite, battute anche Caserta sul 2-0 e la capolista Varese con un 2-1. Così, non passò molto tempo che arrivò la finale. L’avversaria (di sempre) era la Tracer Milano, ma l’uscita di un articolo della giornalista Emanuela Audisio su “Repubblica”, in quei giorni,  fomentò gli animi. Il pezzo titolava: “Casalini  come robocop”. A quel punto, il “Vate” lasciò correre, concentrandosi solo sulla propria squadra in vista dell’esordio programmato in Viale dei Partigiani. La serie-scudetto era 1-2-1-1 ed il primo incontro si concluse proprio a favore dei pesaresi, 90-82, come quasi da tabella di marcia già scritta.

In gara-2 si giocò a Milano e qualcuno ricorda ancora un episodio, verificatosi prima del match. Sembra che Daye si affiancò ad un telecronista di Antenna3, cioè l’emittente che trasmetteva le gare della squadra di Pesaro. Allora, gli chiese di preparare un video con i suoi best moments. L’uomo acconsentì: “In caso di vittoria, non chiederò nulla. Al contrario, farai tu”. A quel punto, Daye rispose: “Oggi vinceremo noi, ma il trionfo avverrà nell’ultima partita”.

Tutto accadde secondo le previsioni di Daye, e non ci fu storia (anche questa volta, mi piace ripetere storia). A Milano, seppure in campo avversario, alla fine la spuntò Scavolini-Pesaro, 86-83. La gara-3, invece, vide vincere la Tracer Milano, 115-108. Ma l’ultimo atto ovvero la gara-4, giocata in Viale dei Partigiani, consegnò alla squadra delle Marche il suo primo scudetto, finendo 98-87. Solo due anni dopo, per la VL fu possibile arrivare in vetta alla classifica di campionato Serie A: in quel caso, sulla panchina sedeva Sergio Scariolo (quel Sergio di cui parlavamo prima), però tornò in squadra anche Cook, recatosi negli Stati Uniti dove, nel frattempo, in NBA aveva indossato le maglie di San Antonio e Denver. La coppia Darwin-Deye era finalmente tornata insieme e per la VL fu di nuovo possibile vincere un altro scudetto.  

Serie A, il miraggio del Grande Bologna potrebbe ripetersi?

Di buon auspicio la vittoria dei Rossoblù di domenica contro la Salernitana. Juventus e Milan non convincono.

Aurora Sansotari, blogger impegnata.

Pochi le ricordano ancora, ma allora rappresentarono un miraggio. Si tratta delle reboanti vicende che segnarono la stagione calcistica 1963-1964 e che consegnarono alla città di Bologna, divenuta in quegli anni simbolo del ‘modello emiliano‘ (espressione, cioè, tra le più significative dell’autonomismo italiano, per cui la tradizione del socialismo moderato si univa alle istanze proprie del cattolicesimo sociale), lo scudetto di Serie A che mancava alla società calcistica da circa 23 anni.

Alla storia fu consegnato come il Grande Bologna: quasi tutti i suoi protagonisti non ci sono più, però nessuno che ami il calcio può dimenticare la formazione di quel miracolo rossoblù che vinse il suo 7° scudetto in un mitico spareggio, avvenuto all’Olimpico il 7 giugno 1964 contro l’Inter di Helenio Herrera che, pochi giorni prima, il 27 maggio 1964, aveva portato a casa la sua prima Coppa dei Campioni, battendo in finale il Real Madrid di Di Stefano e Puskas per 3-1. Lungi dal fare un torto a chi uscì vincitore dalla calda arena romana (l’afa, oggi come ieri, era davvero insopportabile, tanto che Bernardini, romano purosangue, portò i suoi soldati in ritiro a Fregene per abituarli a quella pesante calura ormai estiva) si ricorda che, in quella stagione, il numero di maggiori presenze in campionato per il Bologna fu battuto da Furlanis, Haller, Janich e Negri, mentre il migliore marcatore risultò Nielsen, totalizzando ben 21 reti.

Ma procediamo con ordine: perché, a suo tempo, si è arrivati allo spareggio? A questo punto, l’aggettivo ‘caldo’ usato prima (ndr, in questo caso più di roboanti) si sposa perfettamente con i drammatici episodi che caratterizzarono la corsa del Bologna verso la vittoria finale che, almeno per quell’anno, segnò uno stop all’imperialismo  dello storico (magnifico) triunvirato del calcio, cioè Juve, Inter e Milan. L’allenatore del BFC (Bologna Football Club 1909) era Fulvio Bernardini (soprannominato da Gianni Brera come il ‘Dottor Pedata’ che per primo aveva portato il tricolore a Firenze), mentre Renato Dall’Ara rimarrà alla memoria postuma come quel presidente inossidabile che, avendo fatto del Bologna la sua ragione di vita sin dal lontano 1934 (e portando a casa, allora, ben 4 scudetti), proprio quattro giorni prima della vittoria della sua squadra, perse la vita a causa di un infarto negli uffici milanesi della Lega, durante un incontro con Angelo Moratti e il presidente federale Perlasca.

FBC, una storia lunga più di un secolo.

L’ombra del doping sul Bologna 

Storia passata, storia consumata. Ma quella stagione non fu certo facile per il Bologna che andò allo spareggio senza il suo bomber Pascutti, ma che aveva nella sua rosa un giovane danese dalle potenzialità incredibili, cioè Harald Nielsen. La svolta nella vicenda arrivò subito dopo la partita Bologna-Torino del 2 febbraio 1964, quando la Federazione emise un comunicato che pesò come una doccia fredda: “Le analisi effettuate dalla competente commissione sono risultate, all’analisi per le sostanze anfetamine-simili, positive per i cinque giocatori del Bologna, cioè Fogli, Pascutti, Pavinato, Perani e Tumburus, sottoposti ad ordinario controllo. La presidenza federale ha inoltrato la documentazione alla commissione giudicante della Lega nazionale professionisti, che giudicherà in base all’art.2 del regolamento di giustizia. Il relativo giudizio avrà luogo nel pomeriggio 12 marzo p.v.”.  

La disfatta si abbatte sulla società, ma non sui suoi risultati

Però, quando tutto sembrava già scritto, si appurarono circostanze a dir poco tragicomiche relative alle modalità di conservazione dei flaconi di liquido organico oggetto, in quella circostanza, dello specifico accertamento. Infatti, si stabilì che esistevano 2 serie di contenitori, appartenenti proprio ai 5 giocatori del Bologna: una era custodita presso il Centro tecnico e risultava inamovibile per ragioni di deperimento; l’altra, invece, si trovava presso il Centro di medicina legale delle Cascine, sempre a Firenze, e sarebbe stata utilizzata per le controanalisi. Ma, nel momento in cui si effettuarono i dovuti controlli, i carabinieri accertarono che le condizioni di custodia erano inadeguate, perché le provette non erano sigillate e si trovavano in un armadietto senza serratura al cui interno erano conservati altri tubetti di amfetamina, vicino al rinvenimento, tra l’altro, di tracce di altre sostanze dopanti. Allora, si diede luogo ad una nuova analisi, questa volta a Coverciano: l’esito fu negativo e non venne rilevata alcuna sostanza criminosa.   

Arrivò il verdetto della giustizia sportiva

 Ciò nonostante, arrivò il verdetto della giustizia sportiva che apparve subito come un macigno troppo duro da sopportare: “Si delibera di infliggere al Bologna la punizione della perdita della gara contro il Torino, di penalizzare la società con un punto in classifica, squalificando, inoltre, l’allenatore fino a settembre dell’anno successivo e dichiarando, invece, non punibili i 5 giocatori quali soggetti coinvolti nell’inchiesta”. Ma la squadra, fortemente esposta alla gogna pubblica, seppe reagire, portando a casa, la domenica successiva, la vittoria contro la Roma e proseguendo il suo percorso a testa alta anche dopo la sconfitta contro l’Inter di Herrera, avvenuta il 29 marzo presso il Comunale. Nel frattempo, la Caf, a cui il Bologna si era appellato, assolse la società rossoblù da qualsiasi addebito, perché in buona sostanza mancavano le prove circa l’assunzione da parte dei giocatori del Bologna delle amfetamine oggetto d’indagine. Così, Bologna e Inter si trovarono ex aequo al vertice della classifica a quota 54 punti e, per la prima volta dopo l’introduzione del girone unico, si fece ricorso allo spareggio per definire il campionato. La decisione venne presa negli uffici milanesi della Lega, cioè gli stessi dove, in quei momenti, perse la vita il presidente dal cuore rossoblù Renato Dall’Ara e a cui l’Inter dedicò la sua prima Coppa dei Campioni.

Il resto è storia: una prodezza del danese Nielsen fissò sul 2-0 lo spareggio scudetto contro l’Inter, tanto che Bologna lo ricorda ancora con affetto. I rossoblù domenica hanno convinto contro la Salernitana, vincendo 3-2 e proponendo un assetto tattico coraggioso, cioè un  4-1-4-1.  Di contro, l’Inter l’anno scorso ha vinto il suo 19° scudetto; la Juve ha incassato, nella prima giornata di campionato, un pareggio poco rassicurante contro l’Udinese che ha giocato in casa, e il Milan deve dimostrare di aver superato la crisi. Sarà un anno tutto da giocare, sarà (davvero) l’anno del Bologna?

 

Campionato di seria A, chi sono le favorite

Al bando i pronostici: le squadre favorite sono quelle che giocano il giorno dopo, perché già conoscono il risultato delle avversarie.

Aurora Sansotari, blogger con piccole misure.

Un grande giornalista iniziava i suoi articoli parafrasando sempre qualcosa. Così, porterebbe bene (semmai, suonerebbe bene) rammentare il testo di una canzone. Il titolo è ‘Italiani’; il cantautore che la interpreta, scrivendola, è lui, Edoardo Bennato. “Dicono di noi, schiavi del pallone. Tifosi esagerati, e al bar tutti allenatori. È vero libertari-libertini, a volte puritani. Ma fortunatamente, italiani”. Allora, porterebbe bene (suonerebbe bene, appunto) aspettare le 18,30, cioè il momento in cui oggi parte la nuova stagione di Serie A.

A nulla valgono i soliti pronostici, ma chi sono le favorite per lo scudetto? A buttare l’occhio sulla schedina, questa sera l’Inter parte con una marcia in più, laureatasi campione d’Italia la scorsa stagione e al cui timone rimane il granitico Antonio Conte. Ma, detto l’addio al turno unico e rinunciando ad ogni pretesa di chiaroveggenza, le squadre favorite sono quelle che scendono in campo per la seconda giornata che, conoscendo prima il risultato delle avversarie, giocano davvero su un terreno più tranquillo.

Così, in questa prima giornata di campionato, la Lazio, sotto la presidenza di Claudio Lotito, alla guida della società dal 20 luglio del 2004, sfida l’Empoli alle 20,45; il Verona, invece, gioca contro il Sassuolo, mentre il Torino contro l’ Atalanta che nella stagione 2019-2020 ha debuttato per la prima volta in Champions League, conquistando il terzo posto nel campionato precedente, ma superandosi solo l’anno scorso, quando gli orobici hanno passato il proprio girone (Liverpool, Ajax e Midtjylland), arrendendosi solo in seconda battuta, nel doppio confronto con il Real Madrid.

Le squadre che si contenderanno lo scudetto in Serie A nella stagione 2021-2022.

Le partite di domani

Giro di valzer per domani, domenica 22 agosto. Alle 18,30, sfida tra BolognaSalernitana e UdineseJuventus; NapoliVenezia e RomaFiorentina, invece, animano la serata dalle 20,45 in poi. “Giallo Ronaldo, Juve sulle spine”, ha titolato l’edizione odierna del Corriere dello Sport in apertura. Una querelle, quella della permanenza del giocatore portoghese nella squadra bianconera, che tiene banco ormai da giorni. Cristiano Ronaldo, secondo le ultime indiscrezioni, potrebbe volare oltremanica, ma Massimiliano Allegri ha già pronta un’altra carta: rilanciare Paulo Dybala, mentre l’acquisto del giovane Manuel Locatelli ha permesso allo ct bianconero di disegnare un nuovo centrocampo.  Atteso anche il match Roma-Fiorentina: José Mourinho debutta in campionato sulla panchina giallorossa, ma la sua Roma si è già fatta notare in Turchia nella partita d’andata dei preliminari di Conference League, superando per 2-1 il Trabzonspor

Articolo 31: interpretazione ante litteram de ‘L’Italiano medio’

Storia di una canzone degli Articolo 31 che può essere letta al contrario. Forse dietro si cela il vero significato della locuzione latina in medio stat virtus.

Di me stessa? Mi piace poco, tutto o quasi tutto.

Storia di una canzone oppure storia di uno spaccato di storia che sembra ritornare? La vittoria tutta italiana degli Europei di calcio e il bottino degli azzurri a Tokyo 2020 fa davvero pensare che qualcosa sia cambiato (e tanti rinvengono l’inizio di quel qualcosa addirittura nella vittoria dei Maneskin sul coloratissimo palco degli Eurovison). Così, è esemplificativa di questo/quell’animo la frase di una canzone degli Articolo 31, ‘L’italiano medio’, che non conoscevo (così come, invece, non disconosco il significato di alcuni testi quando ahimè li leggo con attenzione). “Non togliermi il pallone e non disturbo più. Sono l’italiano medio nel blu dipinto di blu”, recita il testo del gruppo hip hop più amato negli anni ’90.

Le nuove leve adorano J-Ax, però forse non sanno che lui e DJ Jad formavano insieme un duo amatissimo e scanzonato, gli Articolo 31 appunto, scioltosi nel 2006, ma che nel 2018 ha trovato una felice reunion quando J-Ax ha annunciato che, durante le cinque date fissate presso il Fabrique di Milano per celebrare i suoi 25 anni di carriera, con lui si sarebbe esibito anche DJ Jad, regalando così alla platea l’emozione di rivederli insieme. In realtà, la suggestione fu tale che, in seguito al tutto esaurito per ogni data, i concerti divennero poi 10, consacrando definitivamente il successo di un gruppo che ebbe il coraggio di accogliere le istanze di un popolo ben più articolate, scegliendo un nome, con cui proporsi al pubblico, in riferimento proprio alla cosiddetta Section 31 del Broadcasting Authority Act, cioè una legge emanata dal parlamento irlandese nel 1976 in seguito ai disordini in Irlanda del Nord e che, per molti, costituiva in realtà una seria minaccia alla libertà di espressione.

Una foto del mitico gruppo hip hop anni ’90, gli Articolo 31.

Il testo della canzone

“Dopo cena il limoncello, in vacanza la tequila. La gazzetta d’inverno e d’estate novella 2000”, sono solo alcune frasi contenute nel testo della canzone ma che racchiudono il senso di chi sia l’italiano medio, perché tutti, in fondo, siamo fatti così: sedotti dalle mitiche curve di donne passate al mito come Stefania Sandrelli, Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Laura Antonelli, ricordando, proprio nel mezzo delle belle giornate estive, le prodezze di Rivera, Bettega e Boniperti. Lui (quest’ultimo), oltre che come calciatore, si fece apprezzare anche come dirigente sportivo, attento al bilancio e parsimonioso. Nella sua Juventus, infatti, passò una linea precisa che ricorda la locuzione latina in medio stat virtus (immèdio, lat. «la virtù sta nel mezzo»). Sosteneva, cioè, che i calciatori non dovevano essere pagati troppo, perché indossare la maglia bianconera era un onore che già ripagava di tutti i sacrifici spesi.  Si racconta addirittura che, quando era ancora un giocatore, gli Agnelli vollero assegnarli un premio e lui, di origini contadine, chiese solo delle mucche gravide per la sua fattoria di Barengo (Novara).

Allora, ‘L’Italiano medio’ ci ricorda come, rispetto ad anni fa, non siamo cambiati (e forse, è anche vero che la maggior parte delle persone non cambieranno mai, vuoi perché ogni popolo ha precise connotazioni antropologiche e culturali, vuoi perché è mancato il riconoscimento delle professionalità in senso ampio). Così, non c’è da meravigliarsi come il testo si apra con frasi dal sapore (vagamente?) amaro: “Io mi ricordo collette di Natale, campi di grano ai lati della provinciale. Il tragico Fantozzi, e la satira sociale. Oggi cerco Luttazzi e non lo trovo sul canale. Comunque, sono un bravo cittadino…”. E non stupisce nemmeno come nel prosieguo ci sia il riferimento a ciò che, pur non piacendo a molti, ha generato un certo appeal: “Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto, che mi fa diventare milionario come Silvio, vol giornale di Paolo e tanta fede in Emilio…). Trattasi, in quest’ultimo caso, di quel Fede che per primo, in Italia, diede notizia dell’attentato alle Torri Gemelle avvenuto l’11 settembre del 2001, risultando il più cruento dei 4 attacchi suicidi avvenuti quel giorno ad opera di alcuni terroristi di al Qaida ai danni di obiettivi civili e militari degli Stati Uniti  d’America.

Il vero significato della locuzione latina ‘In medio stat virtus’

Da poco ho letto un libro in cui viene data una regola particolare, la regola delle 8 ‘P’: “Pensa molto, parla poco, perché parola poco pensata produce pentimento”. E quando diciamo parole che hanno poco senso? Quando siamo in preda alla paura, all’ansia e all’angoscia. A volte, dominare questi sentimenti è assai difficile (lo sanno bene le donne che trasudano ogni emozione con il pianto). Però, in altri casi, sovviene la logica: “Risulta fondamentale dare una direzione alla propria vita”, e quel ‘medio’ a me piace tanto (anche a Sant’Agostino e anche in amore). Si ama per scelta, e non mortificando il proprio corpo e la propria anima, soprattutto quando si sbaglia. In Calabria (e io sono calabrese) esiste un rito antico, chiamato dei ‘battenti’ o ‘vattienti’, e che rappresenta uno degli appuntamenti principali della settimana santa. Tra giovedì e sabato, a Nocera Terinese, i ‘fedeli penitenti‘, durante la consueta processione, si flagellano (letteralmente) battendosi le gambe con pezzi di vetro, fino a sanguinare, come se  il dolore servisse ad espiare ogni forma di peccato. In realtà, però, ciò che conta è che il passaggio non rimanga vano e inosservato, riservando  il più grande rispetto per ciò che ci viene concesso. E il sacrificio portato agli eccessi, che significato ha? Quello proprio no, non la capisco. 

 

Olimpiadi di Tokyo: gli eletti dello sport italiano hanno avuto storie difficili

Hanno avuto una vita non facile ma, come direbbe qualcuno, sono stati capaci di superare la tribolazione con le loro forze.

Aurora Sansotari, blogger senza confini :-).

Mai come quest’anno, direbbe (ancora) qualcuno. Mai come quest’anno perché? Chiederebbero, invece, altri. In realtà, questa volta il messaggio è chiaro. L’Italia c’è, forse non in tutto, però c’è (e si vede) nello sport. E il cuore batte a mille quando spulcio le notizie che arrivano da Tokyo (per una che non vede la tv da 2 anni è già tanto). Ma leggo tantissimo, scoprendo che i nostri, i nostri ragazzi di questo incredibile Giappone 2020, hanno tanto in comune, condividendo storie a volte estremamente difficili e spesso di emarginazione.

Qualcuno (ancore ‘forse’ io) li chiamerebbe gli eletti. Tutti abbiamo imparato a conoscere la splendida mamma di Jacobs che, da sola, ha cresciuto un figlio nato in Texas, consegnandolo 26 anni più tardi all’ immortale iscrizione nell’Albo d’oro della disciplina regina dell’atletica leggera, cioè i 100 metri piani. Lui, quel lui cresciuto a Desenzano del Garda, nella splendida provincia di Brescia, e che ha visto, durante i primi anni della sua vita, pane e sacrifici, essendo cresciuto senza padre.

Altra tornata, ma storia/e non dissimile. Questa volta si tratta di Fausto Desalu, oro nella staffetta 4X100. Il coloro della pelle non è chiaro, però è nostro! E, via via, si scopre che anche lui è cresciuto senza padre, tirato su da una mamma (anche lei sola) di nazionalità nigeriana, e che fa la badante, mentre di notte si occupa di una persona anziana (alla faccia di chi in nome della razza e del prestigio sociale ha sempre perpetrato una forma di discriminazione, ndr dal latino discrimen).

E fa un po’ specie pensare come la ragazzetta prodigio di queste Olimpiadi (questa volta degli altri), Medaglia d’oro nei tuffi (la piccola Hongchan Quan, di 14 anni), alla sua prima  esternazione pubblica abbia affermato: “Con i soldi della medaglia curo mia madre”. Storie degli altri, certo. Ma non diverse/dissimili da quella/e di casa  nostra.

Quando si dice ‘leggere tra le righe’

Così, non stupisce che uno come Lorenzo Patta, anche lui nel battaglione azzurro della 4X100 maschile, abbia ammesso come in pochi credessero in lui e nelle sue capacità. “Mi dicevano che ero secco. Io non sono secco, sono leggero”, ha ribadito nella sua intervista a caldo dopo lo strepitoso successo di 2 giorni fa. Ma se andiamo avanti, torno a ripeterlo, la storia (e) non sarà dissimile (non saranno dissimili). In tal caso, è la volta di Filippo Tortu che, nel 2014 in occasione dei Giochi olimpici giovanili, in procinto di tagliare il traguardo, è caduto, fratturandosi entrambe le braccia. Da quell’incidente è venuto fuori il Filippo di oggi, sempre giovane ed esempio per  quella meglio gioventù che vuole davvero farcela, nonostante tutto.

Com’è importante l’esperienza della maternità

Non è importante che tutti (inclusa la piccola Quan che, per la sua storia/e, sembra proprio una dei nostri) abbiano conosciuto la gioia (e)in passato. Semmai, non l’hanno conosciuta. Ma qualcosa di incredibile è accaduto: infatti, c’è stato chi, nel corso della loro vita, non li ha persi mai di vista, avendo cura di pulire anche i tacchi delle loro scarpette. E loro sono cresciuti, cresciuti, superando numerose tribolazioni. Non ha, quindi, importanza se abbiano avuto o meno un padre (una volta, un mio amico mi disse che ci cresce senza padre, spesso, non ce la fa), però quello che conta è avere una madre. E quella, naturalmente, c’è sempre. E come direbbe un mio amico: c’è sempre, sempre.  

La scorpacciata del giorno dopo: i quattro arbitri migliori di sempre

L’Italia che eccelle nello sport: quel doppio oro che ha lasciati increduli i bagnanti.

Un’immagine recente della blogger Aurora Sansotari.

Hai capito? Hai sentito? Cos’è successo? Erano circa le 22 in Giappone, mentre in Italia non saprei dire. Con megalitica strafottenza, lo confesso, ho scordato di controllare l’ora. Giacché mi guardo intorno, e c’è poco da dire. Un signore ha l’onestà di ammettere: “Non ci credo, ma sarà vero?”. Cos’è successo (e lo ripeto di nuovo)? È  la frase di un altro (sì…proprio di quell’altro appollaiato sul bagnasciuga e che per manifesta pigrizia ha dimenticato che ieri fosse una domenica diversa, una domenica da Olimpiadi). L’Italia ha portato a casa due ori, battendo cassa e rimpinguando il suo medagliere nel giro di pochi minuti. Ebbene (sì)…Marcell Jacobs ha sfondato nella regina delle discipline dell’atletica leggera, i 100 metri piani, e Gianmarco Tamberi lo ha seguito nel salto in alto.

Ma c’è qualcuno che non dimentica il passato e, invitandomi all’umiltà, mi dice. “L’Italia, soprattutto quella del passato, ha fatto la storia dello sport. Vuoi che ti faccia i nomi dei quattro arbitri più bravi di sempre?”. Ovviamente, me ne sto zitta. Mi guarderei bene dal rifiutare un/l’offerta? E continuo a stare zitta, quando arrivano i nomi da inserire nel quadrato/quadrilatero magico. Parla in modo veloce, lo capisco poco;  altre volte, invece, faccio finta di non capire, e in altre ancora (lo confesso) lo prendo in giro. 

Lui lo sa, sa tutto; io provo a nascondergli qualcosa, ma non c’è verso. Allora, arriviamo al time-out…fuori i quattro nomi. E, questa volta, arrivano veramente: “Concetto Lo Bello senior, Fabio Baldas, quello pelato…come si chiama?”. Lo interrompo un attimo: “Siii…questo lo so, Pierluigi Collina!”. Lui (mi sembra di vederlo) annuisce con il capo e mi rifila la toppa: “E poiché ti ho detto che il figlio non era bravo, direi che il figlio, cioè Rosario Concetto..lui è il quarto!”. 

Conclusioni

È vero… perché, può esserci, si può incontrare un altro lui che ragiona così, spettacolare, alla ricerca di quell’esimente tale da salvarci tutti. È magnifico: perdona, perdona, perdona. Io lo farei un po’ di meno, perché sono donna. Ma lui, torno a dirlo, è così. “Quelli, proprio quelli, sono stati i migliori arbitri di calcio in Italia…per il resto, mia cara, molto spesso, siamo figli dell’ignoranza”. E quant’è vero!!! Così (lo ripeto ancora una volta) siamo tutti forti come cristalli, e deboli come il vetro. E questa volta tutti/tutti, arbitri compresi.  

Io che mi sono innamorata del numero 7 del Club Atlético San Lorenzo de Almagro, la squadra amata dal Papa

Da adulto, i compagni di squadra lo chiamavano il lungo, per la sua notevole altezza (1,92). Ma com’era quando aveva 12 anni? I suoi capelli erano color grano.

Un’immagine di pochi giorni fa della blogger Aurora Sansotari.

La mia passione per il calcio? Ha radici lontane, da quando conobbi lui, il giocatore che a 12 anni vestì il numero 7 del Club Atlético San Lorenzo de Almagro, la squadra argentina amata da Papa Francesco. E da adulto (giusto per ripetere l’incipit del sottotitolo, e a me piace tanto la ripetizione)? Jerzy Gorgon  (questo era il suo nome), divenne una leggenda, consacrato dalla storia come uno dei difensori più forti di sempre. Oggi ricorre il suo compleanno; come oggi, il 18 luglio del 1949, nasceva lui, Jerzy Gorgon

Il nostro incontro

Lo conobbi qualche anno fa, in un luogo che preferisco tenere per me (il primo incontro non si scorda mai?). Bello, bellissimo, affascinante. Lo ricordo, era sempre uguale alle foto che successivamente le mie piccole dita, a volte animate da curiosità eccessiva, hanno trovato su Google. Fisico longilineo, non esile, imponente per altezza e i capelli  (sempre) color grano. Alloggiavamo nello stesso albergo, ci siamo parlati, ci siamo frequentati. Capivo di aver fatto un incontro non comune. Lo scoprii più tardi, quando mi disse: “Ho giocato nel San Lorenzo, la squadra argentina amata da Papa Francesco, e indossavo la maglia numero 7”. Era schivo, non parlava molto di sé, fino a quando il concierge dell’albergo non mi ha confidato: “Signorina, lei è fortuna. Ha conosciuto Jerzy Gorgon”. Allora, Internet era già esploso. Ed io, che ero avanti, feci una ricerca. Era il 1967 quando venne ingaggiato dal Gornik Zabrze, squadra con la quale vestirà, questa volta, la maglia numero 8, arrivando a vincere qualcosa come 2 Campionati polacchi e 5 Coppe di Polonia. Però, il suo successo più grande arriva tre anni dopo, quando debutta con la nazionale polacca. Così, nel 1972 conquista la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco di Baviera, battendo l’Ungheria per 2-1, mentre ai Mondiali del 1974 arriva  la consacrazione definitiva della sua carriera, conquistando, dopo aver disputato un brillante torneo, il terzo posto del podio in forza alla nazionale che pochi anni prima lo aveva accolto.

Cosa mi conquistò di lui

Ricordo, ancora ricordo, che ero una 28enne in erba. Piuttosto carina, ma non come adesso. E forse, proprio l’età giocò un ruolo fondamentale in quello che è diventato l’amore platonico più bello (e duraturo) della mia vita. Dopo di lui, il nulla. Ingenuamente, ho cercato in altri ciò che non potevo trovare, cioè la galanteria, la classe, il suo non provarci perché ero più piccola di lui. Negli anni, mi è successo solo una volta di innamorarmi così. Anche lui più grande, però questa volta si tratta di un amore consumato a metà. Infatti, l’ho vissuto solo io, perché lui ha (s)venduto un sentimento, il mio, abbastanza sincero e onesto. Di lì la storia non cambia, e aspetto ancora lui, quel Jerzy, scoprendo, solo dopo, che con mia mamma condivide lo stesso giorno di nascita (anche se lei, ancora ieri, ripeteva di essere nata in realtà il 17 luglio, come se il 17 portasse fortuna).

Oggi, 18 luglio, ricorre il suo compleanno e io lo ricorderò (sempre) con la sua chioma bionda.

L’immagine di Jerzy Gorgon che appena 12enne giocava nel San Lorenzo, la squadra argentina amata da Papa Francesco.  

Di lui mi rimane una bellissima foto

Poche parole bastano per ricordarle una vita. Di lui, mi rimane una bellissima foto. La sua divisa era bianca, mentre scopro che oggi le Guardie Svizzere, i messaggeri, vestono una maglia gialloblù, intrisa addirittura di rosso. Caso vuole che sia lo stesso abbinamento cromatico del Rosario Central, cioè della rivale più temibile del Ciclón (così viene soprannominato il San Lorenzo) e i cui giocatori sono chiamati anche Los Canallas, cioè le canaglie (un appellativo, a dire il vero, poco lusinghiero). La sua storia (del Rosario Central)? Sembra che negli anni ’20 il club, amato questa volta da Che Guevara ,si rifiutò di giocare con gli odiati cugini del Newell’s Old Boys un’amichevole a scopo benefico, il cui incasso sarebbe stato devoluto ai malati di lebbra ricoverati presso l’ospedale Gabriel Carrasco di Rosario.

Papa Francesco continua a tifare San Lorenzo, anche se non vedrebbe la tv da 26 anni

Si dice che Bergoglio abbia spento il piccolo schermo nel luglio del 1990, quando promise alla Vergine del Carmen (di cui ho parlato in un articolo precedente) che non avrebbe mai più acceso l’elettrodomestico più usato di sempre, portato in Argentina da un imprenditore di origini bulgare, un certo Jaime Yankelevich. Ma continua a tifare, come me, per il Club Atlético San Lorenzo de Almagro, quel club fondato in Argentina nel 1908 con la benedizione di un prete, don Lorenzo Massa, e di cui il Papa ha persino la tessera associativa, la numero 88235N-0. Lo scopo del prete fu quello di dare la possibilità ai ragazzi di quartiere (cioè, il Boedo di Buenos Aires) di giocare in un contesto diverso, non quello della strada, e forse così è stato.   

Cannes? La regina quest’anno è lei, Sharon Stone

La manifestazione più glamour del cinema d’Oltralpe incorona la sua regina. Si tratta di Sharon Stone, che ricorda una Carmen moderna e il (nostro) caschetto biondo più iconico di sempre.

Un’immagine recente della blogger Aurora Sansotari.

Ogni volta che la vedo dico wow! Ma è lei? Ogni volta che la vedo dico wow, ma è vero che avrà spento più di sessanta candeline sulla torta? Sharon Stone, lei appunto. L’abito celeste a fiori che ha stregato la Croisette? Alcuni dicono esagerato, io dico semplicemente Dolce e Gabbana (e loro, per me, sono semplicemente dolce). Così, dimentico (per una volta) il brutto replay dell’accavallamento di gambe femminili più strepitoso del cinema di ogni tempo (la seconda battuta o brutta copia spetterebbe alla giornalista Paola Ferrari, durante lo speciale del 15 giugno sugli Europei, andato in onda su Rai Uno). E ricordo, ancora, che lei (cioè Sharon) nasce a Meadville, in un paesino della Pennsylvania. I suoi genitori, Joe e Dorothy Stone, irlandesi di nascita, lavoravano come semplici operai in una fabbrica di colla. Ma poco importa. La sua bellezza è tale che già da ragazza partecipa a diversi concorsi di bellezza, vincendoli tutti e portando a casa, poco più tardi (circa il 1977), un contratto con la Ford Modeling Agency di New York.

La sua vita nel cinema (e fuori)

In tanti la associano esclusivamente al suo ruolo, trasgressivo e altamente erotico, in Basic Instinct, film del 1992 di Paul Verhoeven. Certo, il suo viso si presterebbe ad ogni interpretazione, ma spacca (nel gergo si dice così?) nei panni di una cattiva non convenzionale, come accade in un film meno noto ma la cui trama è da brividi (Diablique, vi dice qualcosa?). Però, qual è il titolo del paragrafo? Dimenticavo: la sua vita nel cinema e (soprattutto) fuori. Lei, la signora Stone, ha infatti più volte parlato dell’ictus che l’ha colpita non molto tempo fa, allontanandola di fatto dal mondo dorato di Hollywood e, ciò che è peggio, dagli effetti che pensava di aver coltivato da una vita. La rinascita (miracolosa)? È avvenuta, non senza dimenticare un’amara confessione contenuta nella sua autobiografia ‘Il bello di vivere due volte’, edita da Rizzoli a fine marzo di quest’anno. “Mio nonno abusò della mia sorellina Kelly davanti ai miei occhi”. Sharon ricorda che Kelly aveva appena 5 anni, lei 8. “Avrei voluto accoltellarlo. E quando ho interpretato la serial killer in Basic Instinct, ho fatto uscire tutta la rabbia che avevo dentro…”. 

Ricordando la Carmen e la mitica Raffa (che di cognome fa Carrà)

Oggi, 16 luglio, ricorre Santa Carmela, in onore alla Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, l’apparizione mariana del 1251 a san Simone Stock in Palestina. Il nome Carmen, invece, è una forma spagnola medievale dello stesso nome, influenzata dal termine di derivazione latina carmen, cioè canzone. E chi era Carmen se non la protagonista della celebre opera omonima di Bizet del 1845? Lei, questa volta la zingara sigaraia più contesa della storia, ha avuto la forza di arrivare  fino a noi ( ai nostri tempi? Tanto che l’overture dell’opera viene suonata per la cerimonia del podio nei Gran Premi di Formula 1), trasmettendo un messaggio di emancipazione che ritroviamo in personaggi femminili diversi (Sharon, ad esempio, è bionda con gli occhi azzurri), potendo addirittura azzardare una similitudine con un’altra eterna blonde girl che ci ha lasciati da poco. Il suo è il caschetto più iconico di sempre (ciao Raffaella) e cantava: “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”. Sì, perché a Trieste, per un certo periodo, si è respirata un’alta aria, addirittura un’altra vita (le mule, che saranno mai?), ma quella è un’altra storia e (sicuramente) diventerà un altro articolo.

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